CLUB per l'UNESCO di MONZA

Atti dell’incontro Pace e Famiglia

Duomo di Monza, 9 giugno 2012

Teodolinda: madre, regina, artefice di pace

di Martina Basile Weatherill

Nel dicembre dell’anno 603 papa Gregorio Magno, tre mesi prima di morire, scriveva una lettera, probabilmente per l’ultima volta, alla regina dei Longobardi Teodolinda, alla quale il pontefice aveva in precedenza indirizzato almeno altre due lettere. La missiva tratteggia lo scenario di un’epoca attraversata da profondi contrasti politici e religiosi tra gli invasori Longobardi da una parte – giunti nella penisola da poco più di trent’anni – e dall’altra i Romani e il Papato; quest’ultimo era impegnato a diffondere l’ortodossia cattolica tra i Longobardi che aderivano al cosiddetto scisma dei Tre Capitoli o all’eresia ariana, se non addirittura ancora al paganesimo.
Al tempo stesso, tuttavia, la lettera mette in luce lo straordinario risultato raggiunto attraverso la mediazione di Teodolinda: la pace nel Regno, stipulata dal marito Agilulfo con l’Esarca, il governatore dei territori della penisola italiana ancora appartenenti all’impero bizantino. Il pontefice prega Teodolinda di ringraziare il marito per questa pace e le chiede di “indirizzare sempre l’animo di Agilulfo verso la pace anche per il futuro e attraverso ogni cosa”.
Lasciando – ma solo in apparenza – in secondo piano tali argomenti, l’incipit della lettera è dedicato invece, con grande delicatezza, alle congratulazioni del papa per la nascita del figlio di Teodolinda e Agilulfo, Adaloaldo. Gregorio si rallegra per il fatto che il piccolo erede sia stato battezzato con rito cattolico, sacramento ricevuto dall’abate Secondo di Non – il consigliere spirituale della regina – nella chiesa monzese di San Giovanni Battista, fondata dalla stessa Teodolinda.
La cerimonia costituì senza dubbio un segno forte della monarchia longobarda, che intese mostrare in questo modo la consonanza con Roma di fronte a tutto il popolo. Gregorio unisce alla lettera anche alcuni doni per Adoloaldo e per sua sorella maggiore Gundeperga: al primo invia una croce-reliquiario contenente frammenti del legno della Croce del Signore e un Lezionario dei Vangeli racchiuso in una custodia
di pelle preziosamente decorata; a Gundeperga dona tre anelli in oro con pietre preziose, due con zaffiri e uno con l’onice.

Croce di Adaloaldo. Monza, Tesoro del Duomo
Croce di Adaloaldo. Monza, Tesoro del Duomo

Di questi doni, solo la Croce per Adaloaldo è giunta fino a noi. Una debole traccia degli anelli si ritrova negli atti relativi alla soppressione, avvenuta alla fine del XVIII secolo, del monastero femminile di San Pietro di Cremella in Brianza, fondato in epoca longobarda e dipendente nel medioevo dalla Chiesa monzese. Da una relazione d’inventario dei beni del cenobio si apprende che le monache fino agli ultimi tempi di vita del monastero conservarono un anello d’oro con zaffiro che sarebbe stato donato loro dalla figlia di Teodolinda, come riferisce il parroco di Besana Pietro Cuzzi in un inventario redatto nel 1789: “Esiste anche un anello di zaffiro quadrilongo, legato in oro, ritenuto nella stima del valore di uno zecchino, il quale è per antica tradizione, che peraltro manca d’ogni fondamento e non concorda con le rispettive epoche, sempre ritenuto per un dono fatto dal papa Gregorio a Gundiberga, figlia della regina
Teodelinda, e da questa al monastero che si credeva fondato dalla medesima; con l’applicazione di questo anello solevano le monache curare gli occhi malati del popolo, che vi correva anche di fuori Stato con persuasione della efficacia d’esso a risanare qualunque ostinata infiammazione. Lo venderò col resto dei mobili all’asta, in esecuzione degli ordini abbassatimi”.
Se dell’anello custodito gelosamente dalle monache non resta oggi purtroppo alcuna traccia, può risultare di un certo interesse il dato che a Cremella sia documentata nel medioevo una chiesa dedicata ai martiri della Val di Non Sisinnio, Martirio e Alessandro, fondazione che rivela una probabile influenza della corte longobarda, in particolare attraverso l’abate Secondo, il consigliere spirituale di Teodolinda che proveniva proprio da quella regione trentina.
Il Lezionario dei Vangeli e la sua preziosa custodia, definita dal papa “theca Persica”, non ci sono purtroppo pervenuti: è infatti improbabile che l’Evangeliario di Teodolinda, di cui ci occuperemo tra breve, possa costituire il rivestimento del codice donato da Gregorio Magno ad Adaloaldo, in quanto l’Evangeliario reca un’iscrizione secondo la quale l’oggetto risulta donato alla chiesa di San Giovanni dalla regina. Qualcuno ha ipotizzato che l’iscrizione possa essere stata apposta successivamente da Teodolinda al dono ricevuto dal papa: ma in questo caso non si spiegherebbe l’assenza del ricordo nell’iscrizione del primo destinatario dell’oggetto, il figlio Adaloaldo. L’espressione “theca Persica” farebbe poi pensare a un rivestimento in pelle piuttosto che in metallo, ma l’argomento è tuttora dibattuto.
Abbiamo maggiori certezze per la cosiddetta Croce di Adaloaldo, poiché si ritiene che questo oggetto corrisponda effettivamente alla croce donata da Gregorio Magno. È un pezzo di straordinario interesse, realizzato a niello, che presenta il Cristo ancora vivo sulla croce con il colobio; all’estremità delle braccia sono rappresentati Maria e Giovanni e si legge un’iscrizione in greco tratta dal Vangelo di Giovanni: “Ecco tuo figlio, ecco tua madre”. Il cristallo che lo protegge è probabilmente un’aggiunta posteriore. Poiché nel medioevo gli oggetti erano simboli, veicoli di messaggi destinati a durare nel tempo, si può dire che questa Croce è il signum, tangibile ancora oggi, con cui Gregorio volle mostrare la sua riconoscenza a Teodolinda,
divenuta da poco madre dell’erede al trono, per la raggiunta pace politica e religiosa. Una riconoscenza che, tramite il pontefice, veniva anche da Dio: in una precedente lettera inviata da Gregorio nel 598 ad Agilulfo, a seguito di un trattato di pace stipulato dal re con l’Esarcato, il papa ringraziava Agilulfo lodandone la saggezza e la bontà, “poiché scegliendo la pace mostrava di amare Dio, che della pace è la fonte”. La lettera del 603, con i suoi riferimenti alla pace costituisce dunque un punto di arrivo e nel contempo un punto di partenza.
Cerchiamo ora di percorrere a ritroso il cammino che portò Teodolinda al raggiungimento di tale situazione politica, per poi vedere se, in quanto madre, seppe proseguire insieme ai figli il progetto di pace stabile auspicato da Gregorio Magno.
Come ho ricordato sopra, all’epoca della lettera del 603 i Longobardi si trovavano in Italia da poco più di trent’anni; Teodolinda era la loro regina da quando re Autari la scelse come sposa nel 588 recandosi personalmente alla corte del re dei Bavari Garibaldo, come racconta con accenti fiabeschi centocinquant’anni più tardi lo storico dei Longobardi Paolo Diacono. La scena dell’incontro tra Autari e Teodolinda è proposta con delicata raffinatezza dagli affreschi degli Zavattari nella quattrocentesca Cappella di Teodolinda del Duomo di Monza, un gioiello che il tempo ci ha miracolosamente preservato da interventi successivi.
Teodolinda discendeva per parte di madre dalla nobilissima stirpe longobarda dei Lethingi, che avevano regnato sui Longobardi fino alla metà del VI secolo: la scelta di Autari mirava probabilmente a creare una base di legittimità per la sua supremazia. Il matrimonio avvenne nei pressi di Verona nel 589, ma ben presto Autari fu vittima di una congiura e Teodolinda restò vedova.
Paolo Diacono ci riferisce che, poiché Teodolinda piaceva molto ai Longobardi, questi ultimi le concessero di designare il secondo marito: la scelta, ispirata forse anche dai consiglieri della regina, cadde sul duca di Torino Agilulfo che, sposando Teodolinda, divenne re dei Longobardi.
Iniziava così, nel 590, il regno di Teodolinda e Agilulfo (riconosciuto re a Pavia l’anno seguente), un regno che sarebbe durato per più di venticinque anni. La loro epoca si contraddistinse come un periodo segnato da aspirazioni di pace, sia in ambito politico nei confronti dei nemici esterni al Regno, sia in campo religioso con il superamento delle divisioni interne alla Chiesa e con l’ulteriore spinta alla cristianizzazione in senso cattolico dei Longobardi, ancora in gran numero ariani o pagani.
In relazione a entrambi questi aspetti, politico e religioso, spesso intrecciati tra loro, la committenza di Teodolinda e di Agilulfo può illuminarci sui loro programmi e sulla loro personalità. Trattiamo prima dell’ambito religioso, nel quale Teodolinda ebbe certamente un ruolo di primissimo piano. Racconta infatti Paolo Diacono che “spinto dalle salutari suppliche di lei, il re Agilulfo si convertì alla fede cattolica ed elargì anche molti possessi alla Chiesa di Cristo e riportò all’onore della consueta dignità i vescovi che si trovavano in una condizione di avvilimento e di umiliazione”. Secondo le parole di Paolo – benché tale quadro possa aver risentito del fascino esercitato sullo storico dalla regina – chiese e sacerdoti godettero dunque di una situazione migliore rispetto ai tempi in cui regnava l’ariano Autari, il primo marito di Teodolinda, definito da Gregorio Magno con l’eloquente aggettivo di “nefandissimus”!
La committenza più significativa di Teodolinda è certamente la fondazione della basilica monzese di San Giovanni Battista, di cui ci informa Paolo Diacono: “In quello stesso tempo la regina Teodolinda fece consacrare la basilica del beato Giovanni Battista, che aveva fatto costruire a Monza (…), e la ornò con molti oggetti d’oro e d’argento e la dotò generosamente di terre”. La basilica teodolindea dedicata al Battista divenne il fulcro del programma politico-religioso di Teodolinda, che a Monza fece anche edificare un palazzo nelle cui stanze, oltre un secolo e mezzo più tardi, Paolo Diacono poté ancora ammirare i dipinti fatti eseguire dalla regina, che ritraevano i guerrieri longobardi, e ne restituì nella sua Historia una suggestiva descrizione, di cui parleremo tra breve.

Coperta di Evangeliario. Monza, Tesoro del Duomo
Coperta di Evangeliario. Monza, Tesoro del Duomo

Prima di soffermarci sull’importanza simbolica della fondazione della chiesa di San Giovanni da parte di Teodolinda e sul programma ad essa sotteso, consideriamo preliminarmente un oggetto che può essere definito l’emblema del progetto politico- religioso di Teodolinda: la Coperta di Evangeliario, offerta dalla regina alla basilica di San Giovanni. Così infatti recita l’iscrizione in lettere capitali, incisa negli otto listelli d’oro chiodati nei quattro campi di ogni piatto: “DE DONIS D(E)I OFFERIT THEODELENDA REG(INA) / GLORIOSISSEMA S(AN)C(T)O IOHANNI BAPT(ISTAE) / IN BASELICA QUAM IPSA FUND(AVIT) / IN MODICIA PROPE PAL(ATIUM) SUUM” (Da quanto ricevuto da Dio la gloriosissima regina Teodolinda offre a San Giovanni Battista / nella basilica che ella stessa ha fondato a Monza presso il suo palazzo). Tale iscrizione è sicuramente compatibile per motivi di ordine paleografico con l’epoca di Teodolinda (inoltre è assai simile all’iscrizione posta sulla lastra in marmo con gli agnelli riferibile alla primitiva basilica e ora
conservata nel Museo del Duomo): non è accettabile dunque l’ipotesi che l’iscrizione sia un’aggiunta di epoca posteriore. Come fa notare Chiara Maggioni, l’opera presenta con limpida chiarezza la sintesi di due mondi: quello germanico, rappresentato dalla cornice e dalle quattro L realizzate con granati almandini incrostati con tecnica cloisonné, e quello romano, illustrato dai cammei (alcuni sostituiti in epoche più recenti). I due mondi sono presentati insieme, rivolti verso la croce posta al centro: una croce gemmata, che rappresenta la divinità di Cristo, ovvero quello che gli ariani negavano sostenendo un grado minore di divinità di Gesù rispetto al Padre. Mondo germanico, romano e cristiano sono dunque rappresentati armoniosamente uniti in un oggetto che può essere considerato uno straordinario manifesto dell’integrazione tra i due popoli e al tempo stesso espressione del programma della regina, che aspirava al superamento di tutte le divisioni nel segno della fede cattolica.

Oltre alla Coperta di Evangeliario, nel Tesoro del Duomo di Monza sono conservati Corona di Teodolindaaltri preziosi oggetti che vengono tradizionalmente riferiti alla coppia Teodolinda- Agilulfo  e considerati parte del corredo donato in occasione della fondazione della basilica di San Giovanni: la Corona di Teodolinda (a destra), la Croce di Agilulfo (pagina seguente), la Chioccia con i pulcini (nelle pagine seguenti), i cosiddetti Pettine e Flabello di Teodolinda. Ma su questi oggetti, nonché sulla figura della stessa Teodolinda, sarebbe auspicabile un aggiornato status quaestionis storiografico, soprattutto alla luce di recenti studi che vorrebbero sminuire il valore del legame di alcuni pezzi del Tesoro con Teodolinda, non tenendo forse nel dovuto conto che essi certamente si trovano ab antiquo presso il Duomo di Monza e che con la figura della regina sono, seppur a diverso titolo e in modo assai complesso, inevitabilmente connessi.

Croce di Agilulfo. Monza, Tesoro del Duomo
Croce di Agilulfo. Monza, Tesoro del Duomo

La chiesa di San Giovanni Battista, come abbiamo ricordato prima, venne fondata dalla regina Teodolinda, probabilmente negli ultimi anni del secolo VI (nell’anno 595, secondo il cronista monzese Bonincontro Morigia, vissuto nel XIV secolo). Tale fondazione mette in luce un aspetto essenziale del programma della regina: il Battista era infatti una scelta “pacifica” rispetto all’altro santo “della guerra” venerato dai Longobardi, san Michele, il cui culto si diffuse soprattutto nelle regioni del nord-est del Regno e nel Sud.
Il culto di san Giovanni è stato definito un attestato di ri-fondazione della nazione longobarda in Italia, una rinascita del popolo longobardo che sostituisce san Giovanni al culto di Wotan degli antenati pagani. Si può dire dunque che nella chiesa di San
Giovanni Battista venne posto il fulcro di questa nuova alleanza: i Longobardi si affidavano ora a san Giovanni come potente intercessore e mediatore della protezione di Dio; in questo senso va dunque letta l’iscrizione apposta sulla lastra di marmo ora esposta nel Museo del Duomo e raffigurante due agnelli rivolti verso la croce, un tempo probabilmente parte dell’arredo liturgico della primitiva basilica teodolindea (cui si deve riferire probabilmente anche un’altra lastra, ora murata nella facciata del Duomo, con il Chrismon inscritto in una ruota tra due croci): con l’intercessione del santo dedicatario dell’edificio veniva invocata la protezione del Signore: “Respece et exaudi me, domine deus meus” (Guardami e ascoltami o mio signore Dio; è una citazione dal Salmo 12).

Lastra in marmo raffigurante due agnelli rivolti verso la croce. Monza, Museo del Duomo
Lastra in marmo raffigurante due agnelli rivolti verso la croce.
Monza, Museo del Duomo

È significativo, sulla base di quanto detto, menzionare la cosiddetta “glossa monzese”, ovvero un’aggiunta alla Historia Langobardorum di Paolo Diacono apposta sicuramente a Monza, probabilmente nel corso del X secolo, e tramandata da tre codici, di cui uno ancora conservato nella Biblioteca Capitolare del Duomo. Nel punto in cui Paolo Diacono parlava della fondazione di San Giovanni, una mano aggiunse che Teodolinda aveva fondato la chiesa “per sé, per il suo consorte, i figli e le figlie e tutti i Longobardi d’Italia, affinché lo stesso santo Giovanni interceda per tutti i Longobardi presso il Signore, ed essi fecero voto, in pieno accordo, tutti i grandi Longobardi, insieme al re e alla regina Teodolinda, e dissero: ‘Se san Giovanni intercede per noi presso il nostro Signore Gesù Cristo, noi tutti unanimemente promettiamo a lui che ogni anno, nel giorno della sua natività, cioè il ventiquattro di giugno, invieremo al suo tempio onorevoli offerte dalle nostre sostanze, affinché per la sua intercessione otteniamo l’aiuto del nostro signore Gesù Cristo, tanto in guerra quanto in ogni luogo dove andremo’. E dal quel giorno in tutti i loro atti presero a invocare san Giovanni, perché egli prestasse loro aiuto in virtù del nostro Signore Gesù Cristo, e così tutti rimanevano illesi e furono vincitori sopra ogni loro avversario”.
La glossa continua citando un documento di donazione di beni da parte di Teodolinda, atto che non ci è pervenuto e che – fa notare Lidia Capo – potrebbe forse non essere originale, anche se i termini usati richiamano da vicino il testo dell’iscrizione dell’Evangeliario di Teodolinda: “La gloriosissima regina Teodolinda insieme a suo figlio, il re Adaloaldo, offre a san Giovanni, suo patrono, da quanto possiede per dono di Dio e dai suoi beni dotali questa carta di donazione, fatta scrivere alla presenza dei suoi. Se qualcuno in qualsiasi tempo altererà questa donazione fatta dalla sua volontà, sia dannato nel giorno del Giudizio insieme a Giuda traditore…”.
Queste aggiunte furono probabilmente apportate a un codice della Historia Langobardorum da parte di un chierico di San Giovanni, in un periodo – il X secolo – in cui sappiamo che la Chiesa monzese fu costretta a ricorrere alla protezione dell’imperatore per assicurarsi la conferma dei propri beni, minacciati dall’azione di
“malos ministeriales” (cattivi amministratori), probabilmente funzionari pubblici che cercavano di usurpare le proprietà della Chiesa monzese: testimonianza della richiesta di protezione imperiale è il privilegio concesso da Berengario nell’anno 920 ai canonici di San Giovanni, ancora conservato nella Biblioteca Capitolare in originale con un raro sigillo aderente in cera che riproduce il volto dell’imperatore.
I canonici custodirono gelosamente questo prezioso documento attraverso molti secoli, ricorrendo ad esso in tempi successivi per sostenere la giurisdizione della Chiesa monzese su beni e diritti.

Privilegio dell'imperatore Berengario (a. 920). Monza, Biblioteca Capitolare
Privilegio dell’imperatore Berengario (a. 920).Monza, Biblioteca Capitolare

Segni evidenti della protezione di san Giovanni sul Regno dei Longobardi sono due aneddoti raccontati da Paolo Diacono. Nel primo passo lo storico narra che a un uomo che osò aprire, per rubarne il prezioso corredo funebre, la tomba di re Rotari sepolto in San Giovanni (ma non si dice se nella chiesa di Monza o in quella dedicata allo stesso santo a Pavia), apparve san Giovanni in persona che disse al ladro: “Perché hai osato toccare il corpo di quest’uomo? Anche se non credeva in maniera giusta, tuttavia mi si era affidato. Poiché sei stato così temerario, mai più potrai entrare nella mia basilica”. Paolo Diacono riferisce che ogni volta che quel ladro provava a entrare nella chiesa veniva spinto all’indietro come da un pugile. Nel secondo episodio, tanto celebre al punto da essere raffigurato negli affreschi degli Zavattari nella Cappella di Teodolinda, lo storico racconta che allorché l’imperatore Costante II si recò in Italia per sconfiggere i Longobardi, chiese preventivamente a un eremita che aveva il dono della profezia se ciò fosse possibile, ma quello gli rispose: “Il popolo dei Longobardi non può essere vinto da nessuno, perché una regina, venuta da altro paese, ha costruito nel loro territorio una basilica in onore del beato Giovanni Battista e per questo il beato Giovanni intercede di continuo per i Longobardi. Ma verrà un giorno in cui questo tempio non sarà più rispettato e allora quella gente perirà”.
Da quanto detto in precedenza appare evidente la volontà di Teodolinda, recepita anche dall’estensore della glossa, di mostrarsi al suo popolo come regina cattolica, promotrice del cristianesimo e dell’unione pacifica delle diverse componenti del Regno: perno della sua azione era la basilica di San Giovanni Battista, da cui si irradiava il processo di evangelizzazione, con azioni (come il battesimo con rito cattolico del figlio Adaloaldo nella basilica monzese) e oggetti di forte impatto visivo e simbolico (come l’Evangeliario e il Pluteo con gli agnelli).
Prova significativa di questo programma fu l’appoggio che la coppia regia diede al monaco irlandese Colombano, a cui fu concesso di istituire il cenobio di Bobbio su terre donate da Agilulfo e di promuovere da questo centro un’opera di evangelizzazione rivolta principalmente a contrastare l’eresia ariana. Il monastero di
Bobbio divenne in seguito uno dei maggiori centri di cultura attraverso il suo celebre scriptorium e la sua ricchissima biblioteca. Ulteriore riprova dello stretto contatto tra la coppia regia e il monaco irlandese è la presenza ancora oggi a Bobbio di una collezione di ampolle di stagno contenenti gli olii delle lampade che ardevano nei luoghi sacri della Terra Santa. Molto probabilmente tale collezione di Bobbio fu un dono a Colombano da parte di Teodolinda; è probabile infatti che le ampolle di Bobbio facessero originariamente parte del più ampio gruppo di ampolle che la regina donò alla chiesa da lei fondata, presso la quale si conservano ancora oggi sedici esemplari che riportano raffigurazioni di scene sacre (la Crocifissione, la Resurrezione, l’Ascensione, la visita dei Magi, la Vergine in Trono), che si ipotizza riproducano manufatti considerati immagini-chiave, come per esempio potevano essere quelle dei catini absidali delle basiliche di Terra Santa.

Ampolla in stagno proveniente dalla Terra Santa. Monza, Tesoro del Duomo
Ampolla in stagno proveniente dalla Terra Santa. Monza, Tesoro del Duomo

Ci è giunto poi un singolare documento in cui Colombano, per richiesta di Agilulfo e Teodolinda, chiedeva a papa Bonifacio IV la convocazione di un concilio per risolvere una volta per tutte lo scisma dei Tre Capitoli, cioè la divisione in seno alla Chiesa di coloro che sostenevano dottrine cristologiche condannate dal papato e dall’imperatore, cui probabilmente per un certo periodo aderì anche l’abate Secondo di Non e forse anche la stessa regina. Il concilio non venne mai celebrato, ma la vicenda getta luce su una questione che divise il Regno longobardo per un lungo periodo. Anche se la storiografia più recente tende a ridimensionare la portata oggettiva dell’attrito tra la Chiesa di Roma e gli scismatici tricapitolini e anche gli ariani, resta come documento enigmatico di questa divisione una lettera papiracea conservata nel Museo del Duomo, che è sempre stata ritenuta erroneamente una lettera di Gregorio Magno a Teodolinda.

PapiroIl papiro oggi è illeggibile (immagine qui sopra), ma ho potuto rintracciare una fotografia, scattata alla fine dell’Ottocento e conservata nel Fondo Varisco della Biblioteca Ambrosiana, che riproduce il papiro in condizioni decisamente migliori:
tale immagine ha permesso infatti di ricostruire in parte il testo. A seguito di questo ritrovamento, la Scuola Normale Superiore di Pisa ha pubblicato il documento come prima lettera nell’opera Lettere originali del Medioevo Latino, datandola agli anni di Teodolinda. Dal formulario si è potuto constatare che si tratta di una lettera inviata da un alto prelato (non dal papa) a un’autorità laica chiamata “celsitudo vestra”, probabilmente proprio Teodolinda, di cui si auspicava la societatem (l’alleanza), invitandola “ad allontanare dal suo cuore ogni dubbio” in merito a una certa causa. È probabile che questa causa fosse proprio l’adesione di Teodolinda allo scisma dei tre Capitoli. La lettera avrebbe in questo caso una grande importanza storica perché darebbe sostegno all’ipotesi storiografica secondo la quale Teodolinda e Agilulfo avrebbero tentennato tra avvicinamento al papato romano e appoggio allo scisma dei Tre Capitoli, con un tentativo di creare una chiesa “nazionale” autonoma da Roma.
Mi sembra, tuttavia, che si possa fare anche un’altra ipotesi, ovvero che fossero invece gli scismatici a sperare in un appoggio conclamato della coppia regia, mentre la possibile iniziale adesione di Teodolinda allo scisma rappresentò probabilmente una strategia per non perdere l’appoggio di un’importante porzione di Regno, facente capo ad Aquileia, con l’intenzione di passare gradualmente alla piena fedeltà a Roma quando i tempi lo avrebbero consentito. I riferimenti nelle lettere autentiche di Gregorio Magno alla fede cattolica di Teodolinda sembrano sostenere questa ipotesi.
L’abilità politica di Teodolinda e Agilulfo per raggiungere lo scopo della pacificazione interna del Regno anche sotto l’aspetto religioso doveva necessariamente passare attraverso la salvaguardia delle tradizioni del popolo longobardo, pur rinnovate nella nuova realtà del Regno italico. Recenti studi hanno ipotizzato che proprio all’epoca di Teodolinda o della figlia Gundeperga possa risalire la redazione di una succinta storia dei Longobardi, l’Origo gentis Langobardorum, che fu una delle fonti usate da Paolo Diacono. Da quest’ultimo sappiamo poi che a Monza Teodolinda fece costruire anche un palazzo, dove risiedette e dove nacque il figlio Adaloaldo; lo storico dei Longobardi ci racconta di aver visto con i propri occhi i dipinti fatti eseguire nel palazzo da Teodolinda, dipinti che ritraevano i guerrieri
longobardi acconciati in questo modo: i capelli erano lunghi sul davanti, con la riga nel mezzo, mentre erano rasati dietro fino alla nuca; le vesti erano ampie, di lino e con balze colorate, i calzari semiaperti e legati da lacci incrociati. Purtroppo nulla è rimasto del palazzo di Teodolinda, che dall’iscrizione sulla Coperta dell’Evangeliario sappiamo edificato vicino alla basilica. Ma forse ci è stata preservata un’immagine di questi dipinti nella cosiddetta Lamina di Agilulfo.

Lamina di Agilulfo. Firenze, Museo del Bargello
Lamina di Agilulfo. Firenze, Museo del Bargello

Questo oggetto, ora al Museo del Bargello a Firenze, è sempre stato considerato il frontale dell’elmo di Agilulfo, un utilizzo provato dal rinforzo in ferro dietro la lamina e dai fori per fissarlo all’elmo. Si tratta di una lamina di bronzo lavorata a sbalzo, con rifiniture a cesello e dorature, che ritrae Agilulfo in trono con la scritta “DOMNO AGILULF REGI”; il re è acconciato secondo l’uso attestato da Paolo Diacono nella
descrizione del palazzo di Monza, ed è affiancato da due guerrieri con armi longobarde, mentre accorrono verso di lui due vittorie alate che reggono un labaro con la scritta VICTURIA (per cui l’iscrizione va probabilmente letta: “Vittoria al signore re Agilulfo”). Dietro alle vittorie ci sono due personaggi per lato, uno dei quali regge un elmo-corona sormontato dalla croce, su modello della corona dell’imperatore d’Oriente; ai margini c’è una torre, simbolo compendiario dell’architettura urbana. Wilhelm Kurze ha proposto di identificare la lamina con la decorazione di un oggetto, per esempio un cofanetto di legno o una parte di un trono e suggerisce – e l’ipotesi è molto suggestiva – che riprenda l’iconografia di un’immagine dipinta di grandi dimensioni (forse posta sopra una bifora a causa sua della particolare forma): lo studioso propone proprio i dipinti del palazzo di Monza, dove risiedettero Teodolinda e Agilulfo. Per quanto riguarda l’uso originario del prezioso oggetto le ipotesi storiografiche, come si è visto, sono molteplici; tra di esse la più plausibile (secondo l’opinione, da ultimo, di Silvia Lusuardi Siena) risulta quella che ritiene la lamina sin dall’origine un frontale d’elmo.
La lamina, prodotta per commissione del re oppure, secondo un’altra ipotesi, come dono offerto al re, è una chiara manifestazione di imitazione dell’imperatore: Agilulfo in trionfo riceve la sottomissione e il potere rappresentato dalle corone, sotto l’auspicio di due vittorie alate. Dei due personaggi offerenti, uno solo ha chiaramente aspetto longobardo come il re: si potrebbe dunque pensare che la lamina rappresenti l’omaggio delle due Italie, longobarda e romano-bizantina. L’oggetto sarebbe allora l’insegna di un programma mai del tutto realizzato ma che certamente fu perseguito dal re: Agilulfo re dell’Italia bizantina per delega dell’imperatore e re dell’Italia longobarda per diritto proprio. Gian Carlo Menis definisce significativamente questa placca come “allegoria delle idee del re”, che aspirava al dominio su tutta l’Italia.
Che Agilulfo – detto Flavius, come il predecessore Autari – abbia voluto emulare l’imperatore romano in molte sue azioni è sicuramente innegabile: la scelta di risiedere a Monza e a Milano anziché a Pavia, capitale del Regno, si rifaceva al fatto che Milano era stata per più di un secolo la capitale dell’impero romano; Agilulfo, al
modo poi degli imperatori, associò al regno il figlio Adaloaldo con una cerimonia nel circo di Milano (l’imperatore veniva acclamato nel circo di Costantinopoli); si dedicò a opere pubbliche, di cui ci resta una traccia nel tegolone bollato rinvenuto a Milano con un’iscrizione recante il suo nome e quello del figlio.

Sviluppo della Corona di Agilulfo. Codice Vindob. Pal 6198 (secolo XVIII). Vienna, Biblioteca Nazionale
Sviluppo della Corona di Agilulfo. Codice Vindob. Pal 6198 (secolo XVIII).
Vienna, Biblioteca Nazionale

Ma il documento più esplicito del programma romanizzante del re è costituito dalla perduta corona di Agilulfo, purtroppo rubata in seguito alle requisizioni francesi di fine Settecento e fusa dai ladri nel 1804. Fortunatamente è pervenuto un accuratissimo disegno, realizzato nel Settecento e tramandato in un codice conservato a Vienna, che ne riproduce lo sviluppo orizzontale. L’immagine ritrae Cristo tra due arcangeli e i dodici Apostoli; le figure, acconciate e vestite secondo i costumi romano-bizantini, appaiono inserite sotto arcatelle sorrette da colonne con capitelli e base; sopra ci sono 61 pietre preziose di vari colori, mentre sotto appare in caratteri capitali l’iscrizione: “+ AGILULF GRATIA DEI VIR GLORIOSUS REX TOTIUS ITALIAE”. (“Agilulfo per grazia di Dio uomo glorioso re di tutta l’Italia”). La scritta inizia ai piedi di Cristo, che costituisce il punto focale della corona: non a caso Agilulfo è detto re per grazia di Dio. Alcuni studiosi hanno ritenuto che la corona fosse un falso integrale allestito dai Visconti nel XIV secolo per giustificare le loro ambizioni di sovranità rifacendosi al precedente Regno dei Longobardi. Come sottolineato da Reinhard Helze, l’accuratezza del disegno del codice di Vienna ha
permesso di rigettare questa ipotesi e di considerare sia l’iscrizione sia l’oggetto come compatibili con la scrittura e la produzione orafa di inizio VII secolo.
Il programma sotteso all’iconografia è quello di una monarchia romanizzante e cattolica, che aspira ad evolversi in senso territoriale e non etnico: Agilulfo si presenta re di tutta l’Italia, intesa come territorio unitario soggetto alla sua giurisdizione, comprensivo di Longobardi e Romani, vincitori e vinti. La stabilità e la pace nel Regno erano i presupposti fondamentali di questo programma: e infatti Agilulfo stipulò trattati di pace con i Franchi, gli Avari, l’esarca, l’imperatore, il papato, oltre a contenere con decisione le spinte autonomistiche dei duchi longobardi. Infine, una curiosità: quando nel 1805 Napoleone fu incoronato a Milano con la Corona Ferrea, si coniò per l’evento a Parigi una medaglia commemorativa, che presentava da una parte il volto di Napoleone con la corona d’alloro al modo degli imperatori, e dall’altra la corona di Agilulfo, che tanto doveva aver impressionato i francesi!

Medaglia commemorativa

L’evoluzione politica e religiosa del regno di Agilulfo in senso cattolico e romanizzante fu certamente ispirata da Teodolinda, presso la cui corte erano attivi personaggi definiti da Gian Piero Bognetti “ministri romani”, caratterizzati da nomi di tradizione romana e di cui l’abate Secondo di Non, più volte ricordato,
rappresenterebbe un esponente.
Quanto iniziato dal padre Agilulfo, morto nel 615 o 616, fu poi proseguito dal figlio Adaloaldo, che a soli quattordici anni rimase alla guida del Regno, insieme alla madre, per un periodo di dieci anni. La regina morì il 22 gennaio del 627, come riporta l’Obituario monzese del XIII secolo in uso presso la basilica, tuttora conservato nella Biblioteca Capitolare del Duomo e recentemente pubblicato.
Paolo Diacono ci informa che “sotto di loro (Teodolinda e il figlio) le chiese furono restaurate e molte donazioni furono fatte ai luoghi venerabili”.
Numerosi indizi ci fanno pensare che Teodolinda fu madre esemplare per i figli, che indirizzò a proseguire la sua opera di evangelizzazione: Paolo Diacono racconta che la figlia Gundeperga, che andò in sposa prima ad Arioaldo, successore del fratello morto prematuramente, e poi a re Rotari, fece edificare una chiesa dedicata a San Giovanni Battista a Pavia, emulando l’azione della madre che con la fondazione monzese aveva segnato la rinascita cristiana del suo popolo. Per quanto riguarda Adaloaldo, ci è giunta una bellissima lettera del re visigoto Sisebuto, cattolico e coltissimo, che si rivolge al giovane re invitandolo a seguire le orme della madre Teodolinda, di cui viene tratteggiato uno straordinario ritratto: “Tu hai lì una madre degna di ogni venerazione, saldissima maestra di fede, illustre per le sue azioni, sincera nell’umiltà, compunta nella preghiera, dedita a benefiche occupazioni, legata al vincolo della carità, sagace nel consiglio, ricca di misericordia, insigne per onestà, piena di tutte le virtù, dolce nel parlare, acuta nell’intelligenza, copiosa nel donare, giusta nel giudicare, clemente nel parlare, amicissima di Cristo, amica del gregge cattolico, sempre ostile al diavolo e ostilissima al suo corpo eretico; la giustizia innalza la sue virtù affinché continui più equa, la prudenza fa in modo che sia attenta alla forza della ragione; e non a torto è nobilitata da un nome di così grande fama colei che è conosciuta per essere resa salda da così tanti doni ai piedi del creatore delle stelle”.

Chioccia con i pulcini. Monza, Tesoro del Duomo
Chioccia con i pulcini. Monza, Tesoro del Duomo

Per concludere propongo l’immagine della famosa Chioccia con i pulcini, conservata nel Museo del Duomo di Monza. È un oggetto di difficilissima datazione (forse tardo- antico, forse eseguito in più fasi), intorno al quale sono state fatte numerose ipotesi circa il suo significato simbolico; la tradizione popolare, tuttavia, lo ha sempre visto come rappresentazione di Teodolinda insieme alla “famiglia” dei duchi longobardi. Per restare nel campo delle tradizioni locali, alle quali tuttavia sono talvolta sottesi indizi utili per la ricerca storica, non è forse inutile ricordare come presso il monastero di Cremella prima menzionato, fondato probabilmente in epoca longobarda, circolasse fino agli ultimi tempi di vita del cenobio una singolare credenza, ovvero che il campanile della chiesa monastica, a mezzogiorno di un giorno ignoto, segnasse sulla terra il punto in cui sarebbe stato sepolto un prezioso tesoro: una Chioccia con sette pulcini in oro, di cui l’esemplare monzese in argento
dorato non sarebbe altro che una copia!
Si ritrova una tradizione simile anche a Brivio, la cui chiesa è dedicata come a Cremella ai martiri della Val di Non, elemento che fa sospettare un’influenza della corte teodolindea: a metà di una galleria che si ipotizzava collegasse il castello di Brivio con la rocca di Airuno sarebbe stato celato un altro esemplare in oro della Chioccia con i pulcini, a lungo cercato dagli abitanti del luogo…
Il fascino e il potente messaggio di Teodolinda, che ho cercato di tratteggiare in questa relazione, ha colpito la memoria popolare e colta sin dai tempi di Paolo Diacono e ha scavalcato i secoli per consegnarci quel compito che Gregorio Magno aveva assegnato alla famiglia regia, nella lettera da cui siamo partiti: la Pace, da perseguire “de futuro et per omnia”, riguardo al futuro e attraverso ogni cosa.

Desidero ringraziare il Generale Filippo Carrese e il Dott. Franco Arosio per avermi invitato a parlare in questa Sede, come pure l’Arciprete di Monza, Mons. Silvano Provasi. Un doveroso ringraziamento spetta alla prof. Chiara Maggioni, per le preziose indicazioni sugli oggetti di oreficeria conservati a Monza, e al prof. Marco Petoletti per i puntuali suggerimenti sulle iscrizioni.

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